: faville messicane




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Francesca Lazzarato
IL MANIFESTO. 20.08.09


«Fuentes, promotore e sopravvissuto del boom, sparring di Octavio Paz e lobby vivente delle lettere messicane, non è più quello che era... Un propagandista della propria ormai esaurita genialità, con insufficienza cronica di buone idee narrative»: così scrive Alvaro Bisama, trentaquattrenne scrittore cileno dei più promettenti e critico letterario senza peli sulla lingua, letto e seguito in tutta l'America Latina, a proposito di colui che viene considerato la figura più autorevole della letteratura messicana contemporanea, tradotto ovunque e vincitore di tutti i possibili premi (escluso il Nobel, al quale aspira da anni). Un giudizio spietato che, evocando il «Manifiesto del Crack» lanciato nel 1996 da cinque giovani scrittori messicani per far presente l'urgenza di rinnovare la letteratura nazionale, parla esplicitamente della necessaria «uccisione» di un padre ingombrante. Pronto a sfornare quasi un libro l'anno (la sua ultima opera, La voluntad y la fortuna, è uscita nel 2008 presso Alfaguara) e impegnato in incessanti tournées - l'abbiamo visto l'anno scorso al Festival di Mantova - Fuentes è in effetti lo scrittore messicano vivente più noto e interpellato all'estero, tanto che la sua onnipresenza sembra dare ragione a José Agustín, esponente della cosidetta «Onda», la corrente che negli anni '60 irruppe sulla scena letteraria per sovvertirla brevemente con le nuove istanze giovanili.

Pregevole scrittore e antologizzatore, Agustín sostiene che la letteratura messicana viene considerata e apprezzata, «su scala mondiale», solo attraverso alcuni mostri sacri del passato come Octavio Paz, Juan Rulfo o Carlos Fuentes, i cui nomi oscurano non solo quelli di autori più giovani, ma anche altri «classici moderni» viventi e non, come Martín Luis Guzmán, Mariano Azuela, Juan José Arreola, Vicente Leñero, il geniale e ironico Jorge Ibargüengoitia, la grandissima, misconosciuta Elena Garro, Elena Poniatowska col suo inalterabile impegno politico, l'eccentrico e indimenticabile Salvador Elizondo, il poeta e cuentista José Emilio Pacheco, Sergio Pitol, innovatore formidabile e per lungo tempo uno dei «segreti meglio custoditi» delle lettere messicane, e i messicanizzati Max Aub e Augusto Monterroso, due tra i tanti scrittori che testimoniano dell'ottima accoglienza tradizionalmente riservata dal Messico a innumerevoli intellettuali esuli, dai repubblicani spagnoli ai latinoamericani in fuga dalle dittature dei rispettivi paesi (ma ci sono anche transfughi del tutto volontari, come il peruviano-messicano Mario Bellatin, maestro della metamorfosi e scrittore singolarissimo).

[...] Scrivono piccole storie metropolitane gelide e crudelissime, come Guadalupe Nettel (Petalos y otras historias incomodas), autentica rivelazione di questi ultimi anni insieme a Socorro Venegas, autrice di racconti (Todas las islas) e di romanzi (Serà negra y blanca). Producono testi ambiziosi che si rifanno alla lezione del Crak, come il giovanissimo Tryno Maldonado, blogger furioso che a trentadue anni ha pubblicato due raccolte di racconti e due romanzi di un certo successo, Viena roja e Temporada de caza para el león negro. Scelgono di raccontare nel modo più duro, con una prosa scabra e nuda, il Messico della violenza urbana e del narcotraffico: così hanno fatto Yuri Herrera (Trabajos del reino) e Martín Solares (Los minutos negros) con due romanzi che si inscrivono nella tendenza più interessante e vitale del momento, quello che si potrebbe definire all'ingrosso e un po' impropriamente della «narconovela».